Washington DC e un matrimonio americano

Washington DC è il centro del potere. Lo testimonia abbondantemente in tutti i suoi angoli, lungo tutte le sue strade, da tutti i suoi enormi massicci palazzi orlati di bandiere a stelle e strisce, qui più che altrove.
Eretta appositamente per essere la capitale degli Stati Uniti appena usciti dalla guerra civile, è stata pensata e realizzata come la celebrazione della forza e dei principi che hanno forgiato la nazione.
Il mall, vale a dire la lunga direttrice alberata e verde che unisce il Capitol con il Lincoln Memorial passando per il Washington Monument è un esempio di architettura che riprende quella tipica della Roma imperiale: i tre monumenti appena citati richiamano le linee classiche della romanità e della tradizione faraonica egiziana. A poca distanza sorge il Jefferson Memorial, in stile neoclassico anch’esso, ad ulteriore conferma della vocazione “imperiale” dell’impostazione della capitale degli Usa.
Capitol from the mall, Washington D.C.
Capitol from the mall, Washington D.C.
Washington monument and the Potomac, Washington D.C.
Washington monument and the Potomac, Washington D.C.
Lincoln memorial, Washington D.C. USA
Lincoln memorial, Washington D.C. USA
Jefferson memorial, Washington D.C. USA
Jefferson memorial, Washington D.C. USA

Tutta la lunghezza del Mall è costellata di altri Memorial dedicati a figure rilevanti della storia del Paese (Martin Luther King, Franklin Delano Roosevelt) o ai caduti delle varie guerre dello scorso secolo (seconda guerra mondiale, Corea, Vietnam) in un continuo sforzo di celebrazione ed espiazione del ruolo guida del mondo che gli Stati Uniti si sono (arbitrariamente?) assegnati.

Smithsonian institute, the Mall, Washington D.C. USA
Smithsonian institute, the Mall, Washington D.C. USA
La Casa Bianca sorge immediatamente nelle vicinanze del Mall e, protetta da un enorme e notevole apparato di sicurezza, conferma l’impressione di forza e solennità dell’area pur se circondata da un lezioso e discreto giardino alberato.
I grattacieli non sono di casa a Washington DC, nulla può essere più alto, quindi visibile e solenne, del Washington Monument e del Capitol che ha nella sommità della cupola la statua che rappresenta la “Libertà”: uno dei valori fondanti di questo Paese.
The White House, Washington D.C. USA
The White House, Washington D.C. USA
Visitando il Capitol, tour gratuito con guida al quale si accede dal nuovo Visitor Center posto al lato ovest, ho avuto la conferma della vocazione imperiale degli Stati Uniti: la celebrazione ossessiva e ripetuta della bontà dei loro valori, della bontà della loro missione sul pianeta, della bontà della convinzione dell’essere i corretti interpreti della volontà di dio, è il leit-motiv della rappresentazione che offrono di loro stessi agli altri.
Capitol, Washington D.C. USA
Capitol, Washington D.C. USA
I simboli e le icone che accompagnano i percorsi e decorano le sale sono sempre estremamente enfatici e solenni quasi da parere al limite del delirante. Il video introduttivo al tour, mi dicono costato quasi un milione di $, è la propaganda fattasi perfezione filmica: partendo dal motto degli Stati Uniti “e pluribus unum” (da una moltitudine, una sola nazione) vengono mostrate le diversità del paese, le montagne e i deserti, le coste e le città, tutte libere di esprimere la propria unicità all’interno di un spazio valoriale unico e (…) condiviso; il video è anch’esso ricco di simboli e di immagini fortemente suggestive che evocano nello spettatore un forte senso di rispetto e di ammirazione, come se si stesse assistendo alla dimostrazione che esiste veramente un paradiso sulla terra fatto di valori positivi, di libertà e di felicità.
La felicità è un diritto dell’uomo giunto nella terra promessa che è l’America, meglio: la ricerca della felicità “the pursuit of happiness” per la quale i coloni dei 13 stati originari si sono battuti contro la dominazione britannica e hanno raggiunto l’indipendenza. Definire la “felicità” è terreno arduo: non sono in grado di fare l’esegeta di Thomas Jefferson, colui che ha dato forma a questa idea nella dichiarazione d’indipendenza, ma forse nelle sue riflessioni c’era un afflato più alto che non l’attuale versione ultra liberista che definisce la felicità attraverso la quantità di denaro spendibile da ciascun americano, almeno l’insieme di quei pensieri di Jefferson, scolpiti nella pietra del suo Memorial, fanno credere (e sperare?) fosse così.
Jefferson memorial, Washington D.C. USA
Jefferson memorial, Washington D.C. USA
"Life, Liberty and the Pursuit of happiness" Jefferson memorial, Washington D.C. USA
“Life, Liberty and the Pursuit of happiness” Jefferson memorial, Washington D.C. USA

Un altro luogo di forte suggestione iconica nella capitale è l’Arlington Cemetery, dove trovano sepoltura gl’innumerevoli caduti delle guerre affrontate da questo paese e dove brilla la fiamma eterna sulla tomba di John Fitzgerald Kennedy il più giovane presidente degli Stati Uniti, così amato da essere diventato il simbolo di più generazioni di americani e non, anche ben oltre le sue effettive capacità e meriti: da noi in Europa, un pellegrinaggio così continuo e massiccio presso un cimitero di soldati e presidenti non ha eguali, anzi oserei dire che sia impensabile, qui la commistione evidente tra esercizio del potere e sua affermazione attraverso la “difesa preventiva”, come sono molte delle loro guerre (così come faceva la Roma Repubblicana e poi Imperiale) ha in questa continua commemorazione dei morti in azione di guerra la sua sintesi e esaltazione.

Arlington cemetery: entrance. Washington D.C. USA
Arlington cemetery: entrance. Washington D.C. USA
Arlington cemetery, Washington D.C. USA
Arlington cemetery, Washington D.C. USA
"J.F. Kennedy grave" Arlington cemetery, Washington D.C. USA
“J.F. Kennedy grave” Arlington cemetery, Washington D.C. USA
Space Shuttle Challenger crew grave. Arlington Cemetery, D.C. USA
Space Shuttle Challenger crew grave. Arlington Cemetery, D.C. USA

Se si vuole avere la chiara idea di cosa siano gli Stati Uniti e del perché siano quello che oggi sono, Washington DC è una tappa obbligatoria: qui si definisce l’anima e la volontà di potenza degli Stati Uniti.

Arriviamo a Washington di mercoledì, dai 13°C di Chicago troviamo ad attenderci 27°C con umidità intorno al 80%: in pratica si soffoca e si suda come nelle piantagioni di cotone.
Il nostro amico David, il prossimo sposo di origini italiane (due anni fa venne in italia per andare a vedere la sua città di origine: Nola, e non ne rimase molto soddisfatto), motivo per cui siamo qui in DC, ci viene a prendere in aeroporto e ci porta a cena dopo una rapida, rinfrescante sosta in hotel; con lui, attivista repubblicano, parliamo liberamente di politica a cena, siamo solamente noi tre, la futura sposa è impegnata negli ultimi preparativi, e così possiamo simpaticamente azzuffarci sulle ridicole (per noi) affermazioni del Tea-party e il fallimento (per lui) della presidenza Obama e della necessità di un ricambio alle prossime presidenziali del 2012, anche se, parole sue, la probabilità che possa riaffermarsi il primo presidente di colore della storia Usa non è così remota
Giovedì è il giorno dedicato al pranzo con gli amici democratici che vivono qui in DC che incontriamo dopo aver approfittato della Smithsonian Institution che offre gratuitamente i musei sul Mall: c’è quello della storia naturale del pianeta (che vale la pena veramente) pieno di fossili e resti di dinosauri e un perfetto percorso attraverso le ere geologiche, la National Gallery con dipinti da tutto il mondo, dagli italiani del ‘300 agli impressionisti francesi del ‘800, quello aerospaziale e il nuovissimo di cultura indo-americana; tutti molto interessanti e tutti gratuiti.
Vale veramente la pena di alternare alla passeggiata lungo il Mall per ammirare l’architettura e i monumenti della capitale, l’ingresso ai musei dello Smithsonian Institute: essendo gratis non si ha l’ansia di doverci trascorrere troppo tempo per ammortizzare il costo del biglietto, si può tirare dritti per vedere il dipinto o la sezione che interessa e poi riuscire per riprendere il passeggio; all’interno dei musei c’è sempre almeno una caffetteria dove mangiare e godere dell’aria condizionata se fuori fosse troppo umido e caldo per camminare senza stop.
La sera, a cena, è il momento della “big reunion”: Chiara ha trascorso un anno qui in DC, ventenne, a fare l’AuPair in una famiglia di repubblicani impiegati a vari livelli nell’amministrazione dell’allora presidente Reagan (l’attore col ciuffo) e con i suoi “host parents” ha mantenuto nel tempo ottimi rapporti, tornando più volte nel corso degli anni a trovarli; questa volta sono tre gli anni trascorsi dall’ultimo incontro (per me sono 12 anni: negli anni di Bush non ho mai messo piede negli Usa, un mio personale e inoffensivo boicottaggio di quell’amministrazione) e così a cena è il piacevole momento per fare un po’ di amarcord e di inquiries su cosa stiamo facendo e “how’s the economy in Italy”.
Sono presenti anche gli amici comuni (i democratici del pranzo) e il chiacchiericcio è rigorosamente “light”: no politics, assolutamente.
I Donatelli, i “republicans host parents” di Chiara, dalle origini (lui) chiaramente italiane (dall’Abruzzo generoso) sono anche gli organizzatori del ricevimento post matrimonio dell’amico David (che con la sig.ra Donatelli condivide la proprietà dell’azienda che si occupa di gestire le campagne elettorali locali e/o nazionali per vari candidati repubblicani) che si terrà nella loro casa e nel giardino con vista sul Potomac (il fiume che attraversa DC) ad Alexandria, Virginia città dove risiedono i ricchi washingtoniani che lavorano nell’ambito del governo o della politica.
Alexandria, Virginia, USA
Alexandria, Virginia, USA
Alexandria, Virginia, USA
Alexandria, Virginia, USA
Alexandria, Virginia, USA
Alexandria, Virginia, USA
Venerdì l’appuntamento è con il ricevimento pre-matrimonio per gli amici intimi, dove nella migliore tradizione americana sostanzialmente si beve e si fanno pr: dopo una mezz’ora la maggior parte dei presenti è “storta” e le chiacchiere scorrono libere e le risate altrettanto; lo sposo c’introduce prima alla sua famiglia, poi a quella della sposa, sempre esaltando la lunga distanza percorsa per partecipare al loro matrimonio e “we’re so honoured you’re here” e poi in sequenza ad un suo amico dell’Arizona, Rob, che ha lavorato per le campagne dei republicans per un periodo, ma in realtà è democratico e che scopriremo essere la versione giovane di Michael Moore, ad un potenziale futuro congressman repubblicano di cui stanno curando la campagna elettorale che partirà a breve che somiglia a Michael J. Fox de “Il segreto del mio successo”, e ancora ad una coppia che ha in comune con noi il fatto di avere una AuPair che si prende cura dei loro bambini: la mamma in questione, sarà l’alcool o il fatto di avere di fronte due italiani che hanno fatto tutti ‘sti chilometri per venire a questo matrimonio, in dieci minuti ci racconta praticamente tutta la sua vita e le ansie di mamma in carriera, il marito parla ad alta voce (he’s so loud, dice lei) e ride come stesse assistendo ad una puntata del “Letterman show”.
Finalmente sabato arriva il matrimonio intorno al quale abbiamo costruito questo viaggio: la cerimonia si tiene in una chiesa cattolica italo-americana dove fanno anche la messa in italiano (yippie!!), la chiesa è una replica di plastica di tutte le baroccaggini che si possano trovare mettendo insieme 2/300 anni di architettura ecclesiastica italiana, frullandola e tirandone fuori un’insensata sintesi. Lo sposo rigorosamente in tuxedo (???) non pare emozionato, la sposa è una bellissima barbie bionda avvolta in un sobrio vestito color avorio con velo, mentre grosso disappunto per le “maid of honor” che ci aspettavamo più “tacky” (kitsch, tamarre) e invece sono in un sobrio color carta da zucchero senza neanche un nastro o un fiore tra i capelli.
Officia il matrimonio lo zio prete (proprio come in Italia negli anni ’50) che manca poco si infarta mentre serve la messa, tanta è l’emozione per questo nipotone (David sarà alto 1,90) che finalmente a 41 anni convola a giuste nozze: la cerimonia è veloce e, pur nel tentativo di dare un tocco d’italianità al tutto, nessuno tira riso agli sposi che, anzi, escono dalla chiesa prima degli invitati (mai visto).
Lasciamo la chiesa insieme ai Donatelli per andare con loro a mettere a punto gli ultimi dettagli del ricevimento, Chiara si emoziona nel rivedere la sua stanza di quando era ventenne e piena di belle speranze, ma soprattutto nel rivedere la splendida “mansion on the river” stile coloniale (la Virginia è stato del sud) che sarà grande 10 volte casa nostra (escluso il giardino, ça va sans dire).
Gli sposi arrivano a bordo di una Rolls Royce anni ’30, stile AlCapone, quando già la maggior parte degli ospiti è nuovamente “storta” per l’alcool a fiumi che viene servito, tra cui un ottimo Pinot Grigio (ah! L’Italia che compete!) e un bianco del Lazio che s’accompagna ottimamente con il rinfresco: passiamo da una chiacchiera con il democratico Rob e la sua famiglia (moglie di chiare origini nativo-americane e una bella bambina che dei due pare aver preso il meglio) sparlando amabilmente degli sposi e dei repubblicani e dell’impresentabile Perry (uno dei candidati rep alla corsa per la casa bianca), ad una più sobria con il futuro (chissà) congressman repubblicano che non manca di darci il flyer della sua campagna elettorale e di spiegarci come non si senta a suo agio in giacca e cravatta, lui che è sostanzialmente uno sportivo che ama stare con la sua squadra di calcio di bambini giù nel bollente Texas, ad altre con signore di origini italiane che sono tutte in brodo di giuggiole a parlare con questi italiani così gentili e ai quali rivolgono delle parole nella loro idea di lingua italiana che suonano più o meno come: “buannasarra, comma stàie?”
Wedding party. The Rolls Royce. Alexandria, Virginia. USA
Wedding party. The Rolls Royce. Alexandria, Virginia. USA
Sotto il gazebo bianco con i lampadari stile murano, si mangia, si beve e si balla al suono di una band che esegue classici dello swing e della musica contemporanea bianca fino alla immancabile pulp fiction dance sulla quale, però nessun John Travolta in pectore si azzarda a confrontarsi, meno che mai nessuna Uma Thurman; certo che in un matrimonio all’italiana che sia degno di tal nome non potrebbe mancare la torta almeno a 5 piani… e invece nessuna torta: NESSUNA TORTA? Ma siam pazzi? Ebbene sì, nessuna torta, solamente dei pasticcini da giorno dopo: sadness, sadness.
Vabbè so’ ammerigani: che ci vuoi fare?
The swinging band. Alexandria, Virginia. USA
The swinging band. Alexandria, Virginia. USA
Il fotografo immortala gli invitati, gli sposi, gli sposi con gli invitati, gli invitati con gli invitati e si arriva inevitabilmente (e finalmente?) ai “Tciai, ariveDDerci, graZZi” e altri più consoni “thank you for coming” “’twas nice to meet you” and so on.
Noi rivedremo gli sposi a NYC martedì, ma nel salutare i Donatelli, sì insomma, un po’ di emozione si manifesta e allora, chissà, a pasqua c’è l’invito ad andare nella loro casa al mare giù in Sud Carolina e allora…
Ciao Washington, gli amici ti hanno resa un po’ più dolce e gradevole: sarebbe bello riuscissi ad essere un po’ più rilassata come L.A. ma immagino che sia anche una questione di clima… ahahah!!

Alcune riflessioni su "Washington DC e un matrimonio americano"

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