Birmania – Viaggio in un paese in cerca di riscatto

La Birmania è un Paese in cerca di riscatto: dopo quasi trent’anni di dittatura militare, feroce e dispotica, con centinaia di prigionieri politici e nessuna libertà individuale né diritti, da poco più di dodici mesi sta provando a trovare una sua dimensione all’interno di un processo democratico tutto da costruire, passo dopo passo.
Un viaggio in Birmania è come salire sulla “DeLorean” di Doc e Marty McFly e settare l’anno 1920, o giù di lì, ma una volta partiti la DeLorean impazzisce e i piani temporali si sovrappongono: il 2012 e il 1920 si mischiano come il riso e la salsa di soia e si presentano come un tutt’uno dalle contraddizioni evidenti e dal sapore agrodolce.

La Birmania è un Paese povero, poverissimo, nel quale il 70% dei suoi 60 milioni di abitanti è contadino e coltiva la terra con i metodi pre-rivoluzione industriale: l’aratro trainato dai buoi, il falcetto per tagliare le piante di riso, il taglia fieno a pedale per preparare il pastone per le bestie. Tutto rigorosamente mosso dalla forza dei muscoli: che siano umani o bestiali. Non ci sono macchine agricole di alcun genere.
Il restante 30% si divide fra artigianato, pesca e, quelli che vivono in una delle due grandi città, Yangon e Mandalay, commercio piccolo e grande: i telai per i tessuti azionati a pedali così come le piattaforme su cui producono i vasi di terracotta.
Insomma quel poco di elettricità che arriva fuori dalle città, viene impiegato per illuminare i vari templi e statue di Buddha, per alimentare gli stand nei quali si raccolgono le offerte per Buddha da cui diffondono musica di richiamo, per accendere le tivvù a tubo catodico intorno alle quali, nei baretti al lato della strada, si raccolgono durante le ore più calde.
Industrializzazione questa sconosciuta.

Nominato Buddha, va tenuto conto che l’85% dei Birmani è buddhista, il resto si divide fra cristiani, musulmani, induisti e altre minori: il succo della religione buddhista è che il tuo stato in questa vita è determinato da come ti sei comportato in quella precedente e come condurrai l’attuale sarà determinante per la prossima, in un loop infinito dal quale nessun dio ti può tirar fuori visto che non ne è riconosciuta l’esistenza, unico traguardo consentito è il raggiungimento del nirvana che, se non abbiamo capito male, è praticamente irraggiungibile per chiunque, ma obiettivo di tutti. I Birmani, quindi, sono fatalisti e accettano la loro condizione con serena rassegnazione ma con l’impegno quotidiano di modificare la prossima esistenza, attraverso la meditazione, la preghiera, le offerte a Buddha, seguendone le “famose” 5 regole (semplificando): non uccidere, non rubare, non dire bugie, non fare l’amore con la donna di un altro, non bere alcool (sono più poveri dei cristiani e così di “comandamenti” ne hanno la metà…).

Ora su questo tessuto sociale, che noi definiremmo ottocentesco, grazie soprattutto alla tenacia della “Signora” della Birmania, Premio Nobel per la Pace nel 1994, agli arresti per 15 anni: Aung San Suu Kyi, che dopo lunga lotta “ghandiana” ha restituito al suo Paese la possibilità di determinare il proprio destino (non ancora compiutamente, ma insomma sono sulla giusta strada), sta precipitando come un maglio spaziale un’improvvisa e improvvida modernità che rischia di far saltare tutti gli equilibri culturali sui quali si regge la società birmana.
Da una parte c’è il rischio che diventi un’ennesima colonia produttiva sfruttata e schiavizzata dalla Cina o dall’occidente, dall’altra che si corra verso un’industrializzazione alla cinese con deportazioni e devastazioni ambientali irrecuperabili. Qualche indizio già s’intravede: la plastica è ovunque, soprattutto ai margini delle città, e la pericolosità del non smaltirla correttamente non è assolutamente percepita. Sarà necessario uno sforzo di adeguamento culturale alle pericolosità della modernità ma anche alle tante opportunità che la accompagnano.
Il ruolo di Aung San Suu Kyi, dopo aver smontato l’impalcatura sulla quale poggiava il regime dei militari, dovrà essere questo: avviare il processo di adeguamento culturale alle sfide della contemporaneità.

Questo premesso, la Birmania è un Paese interessantissimo dal punto di vista umano, da quello storico e da quello naturalistico: il tour che vi racconto, con la consulenza editoriale della moglie, paziente compagna di mille viaggi, ne è stato la conferma.

Voliamo con Qatar Airways da Roma a Yangon via Doha per un totale di 13 ore, comprese le due di sosta nell’aeroporto dell’emirato che ci aspettavamo molto più commerciale: forse è solo l’area transiti internazionale ad essere discreta.
Arriviamo a Yangon (anche conosciuta come Rangoon, ma sui toponimi di questo Paese torneremo poi) alle 6 del mattino, incontriamo la guida che ci accompagnerà per tutta la durata del tour, Than Wai, e alle 0640 siamo già sulle rive del lago Inya, uno dei due grandi specchi d’acqua cittadini circondati da parchi lussureggianti.
All’uscita dall’aeroporto, Than ci rivolge, per la prima volta, quella locuzione inaspettata (che ribattezzeremo oltraggiosamente “la 6a regola di buddha”) che accompagnerà tutto il nostro viaggio: “loro portano”. Mai successo nella nostra storia di viaggiatori, usciamo dal terminal senza preoccuparci di verificare il nastro al quale ritirare le nostre borse.

Il sole è appena sorto ma ci sono già 26° C e un buon 75% d’umidità, sulle rive del lago Inya incontriamo frotte di uomini e donne che camminano, marciano, corrono, fanno tai-chi, ginnastica, ginnastica con la musica: la maggior parte in flip-flop e abbigliamento qualunque, solo una minoranza con scarpe da ginnastica e qualche indumento più consono, secondo criteri occidentali, all’attività sportiva.
Fa caldo, molto, figuriamoci tra un paio d’ore, quando il sole sarà alto.

Alla fine degli anni ’70 il premier di Singapore andò in visita a Yangon e, stupito e impressionato dalla bellezza della città, disse all’allora capo del regime militare Birmano che l’avrebbe presa a modello per lo sviluppo della propria capitale.
Singapore sappiamo che vertiginoso sviluppo abbia vissuto, mentre Yangon si è fermata agli anni ’70: la sensazione è di una città che ha smarrito il senso del proprio ruolo di metropoli e capitale, nel frattempo trasferita altrove, e non abbia più una propria identità salvo che per quei monumenti o palazzi di epoca imperiale e coloniale che la rendevano così affascinante agli occhi dei vicini asiatici.
Yangon è una città fortemente trascurata eccezion fatta per i luoghi di culto che, forti delle donazioni dei pur poveri Birmani, sono tenuti in perfette condizioni e dei due parchi che circondano i laghi, per il resto è una metropoli trafficata, polverosa e decadente.
L’università di Yangon, dove Barack Obama ha incontrato e abbracciato Aung San Suu Kyi il 17 nov 2012 (evento eccezionale dopo anni di embargo internazionale), non appare in migliori condizioni: la nostra guida ci spiega che il sistema scolastico Birmano è un misto di pubblico e privato dove il secondo è di molto migliore del primo con ovvie ricadute sulla divaricazione di classe tra pochi molto ricchi e la maggioranza povera o molto povera.
A Yangon incontriamo i primi di una lunga serie di luoghi di culto caratterizzati da tre elementi principali: la Stupa (Pagoda), il Tempio e la statua di Buddha.
La stupa è quella costruzione fatta a forma di bottiglia di spumante con il collo che termina a punta con un elemento che, tecnicamente, si chiama “ombrello” ornato di gioielli e/o pietre preziose, mentre la parte conica è ricoperta di “fogli d’oro” che sono una delle produzioni artigianali della Birmania e di Yangon in particolare.

Yangon: Shwedagon temple. Birmania
Yangon: Shwedagon temple. Birmania

Il tempio è un edificio più simile ad una nostra chiesa di piccole dimensioni con fregi che ne ornano i tetti conferendone quella tipicità tutta orientale.

Yangon; Shwedagon temple. Birmania
Yangon; Shwedagon temple. Birmania

Buddha viene rappresentato generalmente in tre posizioni: gambe accavallate (posizione di loto), sdraiato su di un fianco, in piedi.La “Shwe Dagon” Pagoda d’oro è il luogo sacro più importante di Yangon: un tripudio di stupa, templi e statue di Buddha.

Buddha sdraiato, Yangon. Birmania
Buddha sdraiato, Yangon. Birmania

L’accesso ai luoghi sacri è permesso rigorosamente scalzi, alcuni offrono una sorta di armadietti dove lasciare le calzature, in altri vengono semplicemente lasciate sulle scale o fuori; si riconoscono quelle dei locali da quelle dei turisti: le flipflop sono dei Birmani, altri tipi di scarpe appartengono ai turisti appena arrivati ché dopo il primo giorno, leva e metti, metti e leva, (quasi) tutti i turisti ripiegano sulle flipflop e via.

Sempre il primo giorno di visite ai vari luoghi sacri, si assiste non solamente all’esercizio “togli le calze, togli le scarpe, rimetti le calze e rimetti le scarpe”, ma anche a “prova a pulire i piedi con le salviette detergenti prima di rimettere le scarpe”; quasi tutte le guide le offrono ai propri clienti, o vengono vendute dalle immancabili bancarelle che circondano le stupa.
Il secondo giorno la parola d’ordine diventa: flipflop e piedi neri fino a sera e chissenefrega.

Abbiamo anche visto italiani che hanno rinunciato ad entrare in alcuni luoghi sacri perché non si fidavano a lasciare le Hogan tra le mille flipflop altrui: sta di fatto che una delle principali attività da turista in Birmania è la visita dei luoghi sacri e forse sarebbe il caso di lasciare le Hogan o simili in Italia o non partire affatto.

Il nostro pellegrinaggio, però, trova soddisfazione altrove: di fronte alla casa della “signora” Aung San Suu Kyi, forse uno dei motivi principali di questo viaggio in Birmania, sulla storia della premio Nobel rimando a Google e ai tanti siti e libri che riportano la sua vicenda, sta di fatto che è una sorta di Gandhi in gonnella della Birmania e oggi finalmente siede in Parlamento regolarmente eletta dai suoi concittadini. L’omaggio che le facciamo qui lo trovate alla fine dell’articolo. Than ci dice che non siamo gli unici a fare questa sosta, molti Birmani omaggiano allo stesso modo la residenza della signora e altrettanti turisti occidentali.

La tappa successiva è Kyaitko dove si trova la “Roccia d’Oro”: un masso in apparente precario equilibrio su uno sperone di roccia a 1100 mt. d’altezza, sul quale è stata eretta una Stupa.

Kyaitko: la roccia d'oro. Birmania
Kyaitko: la roccia d’oro. Birmania

Il masso e la stupa sono rigorosamente ricoperti di fogli d’oro e tutta l’area è oggetto di pellegrinaggio continuo anche durante il periodo dei monsoni, particolarmente insistenti in quest’area.Visitare la Roccia d’oro è un’esperienza tra il divertente, lo sportivo e il mistico: giù a valle si fermano tutti i mezzi di trasporto tradizionali alle porte di un immenso capannone coperto dove sono parcheggiati i camion con i quali si sale verso la vetta del monte dove è appoggiata la roccia.

I camion sono scoperti e per sedersi ci sono delle panche strette e scomode che “devono” ospitare sei passeggeri per fila, una volta seduti tutti, si è praticamente incastrati uno nell’altro al punto che non è necessario reggersi per non cadere durante la gimcana per salire fino a 900 mt. La corsa (nel vero senso della parola) costa circa 3000 Kyat (1000 Kyat = 1 euro). Scesi dal camion non è finita: c’è una simpatica salita di cinquanta minuti abbondanti per arrivare in cima, con una pendenza da togliere il fiato ai più preparati trekker; chi non ha polmoni e/o gambe per fare quest’ultimo salto in alto, può approfittare dei portantini locali che, per 4000 Kyat a testa (sono quattro), ti portano fino alle soglie del tempio.

Kyaitko: portantini per i più pigri. Birmania
Kyaitko: portantini per i più pigri. Birmania

A metà della salita, quando ormai si è sudati da strizzare perché, non dimentichiamolo, ci sono sempre quei 28°/30° con 70% di umidità anche se ci si trova in collina, si trova il primo hotel: il Golden Rock hotel che fortunatamente è il nostro, e la sosta per il check-in è veramente un sollievo.

Consiglio: per questa tappa si consiglia di pernottare una notte, l’ultimo camion che torna a valle parte alle 6pm, e nel caso di portare al massimo uno zaino con il necessario per la notte, viceversa la salita è allietata anche dal trasporto del bagaglio, sempre che non si voglia approfittare delle gambe dei portantini a 4000 Kyat a pezzo.
Tempo di strizzarsi e si parte per la seconda metà della salita al termine della quale, tolte le flip-flop, si entra in uno dei luoghi sacri Birmani per eccellenza, il caldo e la fatica della salita sono ripagati dalla vista e dall’unicità della roccia d’oro: pare di essere in un cartone della Walt Disney dove i castelli fatati sono incistati su improbabili cime e l’equilibrio pare dipendere dalla magia di mago merlino; qui la roccia resta in equilibrio perché trattenuta da “un capello di Buddha”.

Il recente terremoto di fine ottobre l’ha fatta vibrare ma non cadere, così come i precedenti anche più violenti. L’ora ideale, quella nella quale il misticismo dell’area tocca il picco più alto, è certamente il tramonto: la roccia guarda proprio a ovest e dal sole calante viene illuminata così da sembrar risplendere di luce propria; a questo si aggiunge il silenzio della meraviglia dei pellegrini e dei turisti, sottolineato da qualche rintocco baritonale delle immancabili campane sacre.
Anche per degli inguaribili senzaddìo come me, l’emozione è forte.
Oltre il Golden Rock hotel, ce ne sono altri due in cima a ridosso del tempio, oppure si può dormire nella foresteria insieme a tutti i pellegrini con un futon steso per terra: la donazione è libera, il bagno in comune e le flip-flop tutte fuori in bella mostra…
La sveglia a Kyaitko è inutile: alle cinque del mattino, proprio nel pieno della più rilassante fase REM, c’è un simpatico monaco che, grazie ad un’amplificazione degna di concerti rock heavy metal, inizia a snocciolare gli insegnamenti di Buddha dal vicino monastero per richiamare i fedeli alla meditazione. Yuppie!!

La tappa successiva è Bagan nel centro della Birmania, capitale del primo Impero Birmano.
La valle nella quale si trova Bagan è disseminata di templi e pagode risalenti all’undicesimo secolo: circa quaranta chilometri quadrati in cui il verde degli alberi si alterna al rosso dei mattoni che sono la materia prima dei duemilatrecento templi che ne fanno un miracolo archeologico.

Bagan: la valle dei templi. Birmania
Bagan: la valle dei templi. Birmania

Bagan è meno umida di Yangon e i 36° C si sopportano meglio, molti visitatori girano per i templi in bicicletta, pedalando su e giù per strade sabbiose o appena asfaltate, dividendo lo spazio con gli onnipresenti motorini, qualche mucca e qualche pullman di turisti. Bagan è una piana silenziosa, orlata da montagne e costellata di templi: qui si trova la pagoda più grande, la più bella e la più alta (secondo i Birmani) di tutta la Birmania.
E’ un luogo particolarmente affascinante che raggiunge il suo picco di misticismo al tramonto quando, scalando i ripidissimi scalini di una delle tante pagode, si sale sino a raggiungere la base della pagoda vera e propria e, insieme a decine di persone provenienti da tutto il mondo, in rigoroso silenzio, si ammira il cielo diventare sempre più rosso, le pagode circostanti infiammarsi e risplendere nelle loro superfici dorate fino all’ultimo miracoloso raggio verde che si propaga da dietro le colline che a ovest racchiudono la valle di Bagan.

Bagan: tramonto sui templi. Birmania
Bagan: tramonto sui templi. Birmania

Bagan è uno di quei luoghi che restano dentro per sempre: l’atmosfera è unica e il regalo più grande è un’iniezione di serenità che fa sentire i suoi effetti a lungo.

A cinquanta chilometri da Bagan sorge Mt. Popa, un’altura con vari cocuzzoli sulla sommità di uno dei quali (ma va?) si trova un monastero e una pagoda: per raggiungerli si affrontano settecento settanta sette comodi (…) scalini da percorrere rigorosamente scalzi.

Mt. Popa. Birmania
Mt. Popa. Birmania

Tutta la salita è deliziata dalla compagnia di simpatiche scimmie, dei macachi, che incuranti della sacralità del luogo berciano senza sosta e ricevono alternativamente noccioline dai pellegrini e mazzate dai guardiani dell’accesso alla Stupa. Arrivati in cima si ha una splendida vista sulla valle di Bagan e su tutta l’area oltre alla Stupa vera e propria con il tutto il suo corollario di statue di spiriti, pellegrini con le offerte, l’immancabile Buddha e una brezza tiepida che asciuga il sudore dell’estenuante salita.

Alloggiamo in un resort arroccato sulla montagna alle spalle del monastero: eco-friendly, legno e pietra, con la piscina a ridosso dello sperone di roccia dalla quale si ammira il sole tramontare e illuminare la stupa di Mt. Popa.

Tramonto su Mt. Popa dalla piscina. Birmania
Tramonto su Mt. Popa dalla piscina. Birmania

A Mt. Popa, gli amanti del trekking possono fare un trail di quattro ore, andata e ritorno, per salire alla sommità e ammirare la caldera del vulcano spento che è l’altura principale di questo gruppo di sommità unico in mezzo alla piana di Bagan.

Lasciamo Mt. Popa per Mandalay, città di circa un milione di abitanti, antica capitale della Birmania, oggi praticamente in mano ai cinesi che qui controllano quasi tutto il commercio e le attività economiche principali.
Arriviamo dopo sei ore di guida sull’unica autostrada che attraversa il Paese da Yangon a Mandalay, dove incrociamo qualche altra auto, qualche camion, tanti motorini (in autostrada!) e altrettanti cani che trotterellano lungo la corsia di emergenza.

Mandalay: trasporti privati. Birmania
Mandalay: trasporti privati. Birmania

Caso vuole che il soggiorno a Mandalay coincida con due “eventi”, la festa della luce (una delle feste in onore di Buddha) e la luna piena e questa fortuna fa sì che a Mandalay hill, la collina dove si concentra il maggior numero di templi e di pagode della città, si consumi uno spettacolo unico: il sole che tramonta incendia l’oro che ricopre la pagoda e illumina la terrazza del tempio più importante dove sono riuniti gruppi di preghiera provenienti da tutto il Paese; ogni gruppo si sistema in uno spazio contrassegnato da un cartello con il proprio nome (immaginiamo) e da una scritta (chissà che dice) realizzata con decine di candele accese: svanito l’ultimo raggio di sole è il chiarore della luna piena a dare il via al sommesso canto delle preghiere, creando un momento di rara bellezza e intensità.

Mandalay hill: festa della luce. Birmania
Mandalay hill: festa della luce. Birmania
Mandalay hill: festa della luce. Birmania
Mandalay hill: festa della luce. Birmania
Mandalay hill: festa della luce. Birmania
Mandalay hill: festa della luce. Birmania

I templi degni di visita non sono solamente a Mandalay hill ma, dopo una piacevole mini crociera sul fiume Irrawaddy di circa quaranta minuti, sulla sponda opposta alla città, a Mingun, si può ammirare ciò che resta del tentativo di elevare la più grande Pagoda di Birmania, fallito miseramente e per mancanza di fondi e per i terremoti che non mancano nell’area.

Mingun temple, Mandalay. Birmania
Mingun temple, Mandalay. Birmania
Mingun temple, Mandalay. Birmania
Mingun temple, Mandalay. Birmania

La navigazione svela quanto il fiume sia fondamentale per molta parte della popolazione che nelle sue acque pesca, si lava, lava il proprio vestiario, abbevera le bestie e naviga: molti villaggi sorgono proprio sulle rive e dal fiume traggono il proprio sostentamento e ragione di vita.
Come già la capitale, anche Mandalay è circondata da villaggi dove la vita è semplice e la povertà evidente, eppure non mancano orde di bimbi che corrono, giocano e si rotolano ovunque e neanche le offerte per i monaci che mendicano il loro sostentamento anche nei luoghi più remoti e poveri.

Mingun: monks. Birmania
Mingun: monks. Birmania

Lasciamo Mandalay per volare a Heho, solo venticinque minuti di viaggio, ma via terra si impiegherebbero sette ore date le condizioni delle strade che attraversano le montagne.
Heho è il gateway per due importanti destinazioni: Pindaya e Lake Inle.Pindaya si raggiunge dall’aeroporto di Heho dopo due ore e mezza abbondanti di guida su una strada che somiglia più a un tratturo: mancanza di asfalto per l’80% del percorso, buche e avvallamenti da frane e allagamenti e, data la carreggiata ristretta, a ogni incrocio di auto provenienti da direzioni opposte si è costretti a fermarsi per passare uno alla volta.
A Pindaya si trova l’incredibile “grotta di Buddha“: una caverna che si allunga all’interno di una parete di montagna, all’interno della quale ci sono più di ottomila statue di Buddha, una sorta di presepe Birmano popolato di soli Buddha di tutte le dimensioni. Ogni devoto che voglia lasciare il suo segno, fa realizzare una statua di dimensioni direttamente proporzionali alla propria ricchezza da inserire all’interno della grotta; poi dice i devoti di padrepio o di sangennaro.

Pindaya: grotta di Buddha. Birmania
Pindaya: grotta di Buddha. Birmania

La meraviglia vera però è Lake Inle che si trova dall’altra parte rispetto a Pindaya a milletrecento metri d’altezza ed è un parco naturale enorme all’interno del quale, arte, natura e cultura s’intrecciano e ne fanno un luogo straordinario.

Per spostarsi a Lake Inle si usano canoe motorizzate tipiche della penisola indocinese, lunghe e strette, alimentate da motori un po’ rumorosi che le fanno sfrecciare come fossero degli offshore; su queste canoe viene trasportato di tutto: turisti e bagagli, mattoni e bambù, carbone e fiori di loto, cibo e tessuti per i mercatini.
Lake Inle è un paradiso naturalistico e i resort che hanno avuto il permesso di costruzione sono rigorosamente eco-friendly e alcuni particolarmente belli.

Lake Inle: Heho. Birmania
Lake Inle: Heho. Birmania
Lake Inle. Birmania
Lake Inle. Birmania

Il primo incontro è con i pescatori locali che utilizzano una tecnica particolare per remare e pescare nello stesso tempo, dimostrando un equilibrio incredibile e una pazienza infinita: la canoa che utilizzano ha le estremità (prua e poppa) appiattite così da favorire l’appoggio di una gamba mentre l’altra viene utilizzata per spingere il remo tenuto sotto il braccio dello stesso lato, con l’altro braccio tengono in mano una nassa gigante che serve loro per acchiappare i pesci.

Lake Inle: pescatore. Birmania
Lake Inle: pescatore. Birmania
Lake Inle: pescatore. Birmania
Lake Inle: pescatore. Birmania
Lake Inle: pescatore. Birmania
Lake Inle: pescatore. Birmania

Lake Inle si è trasformato in un’area popolata a seguito di una delle tante guerre tra Birmania e Thailandia tra il 14° e 15° secolo, quando le popolazioni del confine sfuggendo ai massacri si sistemarono sulle coste del lago, costruendo abitazioni sulle palafitte dato il salire del livello delle acque nella stagione delle piogge. Oggi ci sono circa ottantaquattro villaggi sul e intorno al lago che vivono di pesca, agricoltura, artigianato e turismo, in condizioni che noi definiremmo limite ma che non impedisce loro di amare, lavorare, coltivare e riprodursi senza alcuna preoccupazione evidente e, soprattutto, di pregare, pregare, pregare.
Anche a Lake Inle sorge una Pagoda con tempio annesso e statua di Buddha e un monastero dal quale, dopo un rapido e ricco temporale, abbiamo assistito ad uno degli arcobaleni più belli degli ultimi anni.

Lake Inle: Pagoda. Birmania
Lake Inle: Pagoda. Birmania
Lake Inle. Birmania
Lake Inle. Birmania

Dalla Pagoda di Lake Inle ogni anno parte una processione che porta in rassegna per i villaggi un’enorme statua di Buddha su una enorme canoa/barca, appositamente realizzata, alla quale fanno da corollario centinaia di canoe grandi e piccole addobbate di fiori di mille colori.
Il Nirvana da raggiungere sulle acque (sulle quali però pare non riesca a camminare nessuno…). Lake Inle è un centro di artigianato importante, si lavora oro, argento, tabacco, tessuto ricavato dalla pianta di loto che è più prezioso della seta visto che il processo di estrazione richiede una pazienza certosina e la quantità di loto occorrente a fare un foulard è notevole.

Lake Inle. Lavoratrici del tabacco. Birmania
Lake Inle. Lavoratrici del tabacco. Birmania

La maggior parte sono ragazze di giovanissima età (15/18 anni) che guadagnano, ad esempio, cinque dollari ogni mille sigari realizzati; le condizioni di lavoro sono al di sotto di qualunque standard minimo di sicurezza e sanità che si possa ipotizzare in occidente: il dilemma se acquistare sia d’aiuto all’emancipazione e crescita o se invece sarebbe opportuno boicottare per dare un segnale di riprovazione tutta snob e “bianca” è lì e ognuno lo risolve secondo la propria coscienza e sensibilità, di fatto non assolvendo ad alcuno dei due convincimenti.

A lavorare l’argento e l’oro sono i maschi, a pulirlo e a venderlo sono le ragazze, in una divisione rigidissima dei compiti che non prevede contaminazioni.

Anche la religione Bhuddista ha il suo bel portato discriminatorio nei confronti del genere femminile che ha il suo evidente risultato in questa separazione chiara dei ruoli, soprattutto nei villaggi e nei mestieri più “umili” e la sua epifania nel divieto di accesso, nei templi, alla zona più vicina alla statua del Buddha, quella dalla quale si possono attaccare le sfoglie dorate che addobbano e “sformano” nel tempo la sagoma sacra.

Tempio buddhista e divieti d'accesso alle donne. Birmania
Tempio buddhista e divieti d’accesso alle donne. Birmania

Cibo: come in tutta l’Asia del sud e del sudest il riso è la base di qualunque dieta, a questo viene aggiunto il pesce al vapore o fritto, il pollo o il manzo, il tutto accompagnato da spezie molto piccanti: ai turisti viene proposta una versione “light” con possibilità di “accendere” i piatti a parte. Si inizia sempre con una zuppa di ceci o di lenticchie o di zucca o di pollo o di pesce (non immaginatevi caciucco o simili), accompagnati da specie di patatine fatte con la farina di ceci, poi si possono avere dei fritti (cavallette e altri insetti non sono proposte ai turisti, tranquilli) e poi il piatto a base di riso.
E’ possibile anche mangiare piatti che sono incroci della cucina birmana, cinese e thailandese, come il riso fritto o i noodles.
Acqua rigorosamente in bottiglia, sigillata, sempre. Si può accompagnare il pasto con il té verde, usanza molto birmana.
Evitare di mangiare nei mercati o dalle bancarelle delle strade di Yangon o Mandalay se non si vuole una gastroenterite acuta senza passare dal via.Hotel: abbiamo scelto sistemazioni di livello ma non mancano proposte per budget traveller in tutte le località toccate dal tour.

Menzione speciale per il Myanmar Treasure Resort a Lake Inle per la vocazione eco e per la bellezza della struttura, altrettanto belli quelli di Bagan e di Mt. Popa.

Myanmar Treasure Resort, Lake Inle. Birmania
Myanmar Treasure Resort, Lake Inle. Birmania
Myanmar Treasure Resort, Lake Inle. Birmania
Myanmar Treasure Resort, Lake Inle. Birmania

Altra menzione speciale per la nostra guida, Than Wai, appartenente a quella categoria di persone che sono disposte al sacrificio personale per i propri ideali: negli anni del regime, pur avendo un incarico per lo stato, non ha esitato a prendere parte al movimento che sosteneva la liberazione di Aung San Suu Kyi pagando con cinque anni di “latitanza”e la perdita del posto sicuro; costretto poi a reinventarsi una vita quando la situazione si è finalmente calmata.
Than ha sopportato con calma serafica le nostre domande di cinici occidentali sempre pronti a razionalizzare anche l’irrazionalizzabile, nascondendo dietro la difficoltà di esprimere concetti complessi in una lingua non sua, il diritto a non rispondere alle nostre impertinenze.

Toponimi: Birmania o Myanmar? Rangoon o Yangon? La giunta militare, preso il potere, decise di cancellare dalla storia del Paese la presenza dei Britannici, modificando tutta la toponomastica decisa dai colonizzatori: in realtà oggi la confusione è soprattutto all’estero dove il cambio non è stato così evidente, all’interno ai turisti che usano la toponomastica coloniale non viene tagliata la lingua ma risposto con cortesia senza alcuna difficoltà.
Sempre presi da questa foga azzeratrice dei britannici, la giunta ha modificato il senso di marcia dei veicoli: da sinistra stile british, a destra stile resto del mondo; peccato che le auto che importano principalmente dal giappone, abbiano il volante a destra con il risultato che superare in Birmania sia particolarmente un azzardo.

Consiglio: portate soltanto un paio (o due) di flipflop e, solamente se avete intenzione di fare del trekking, delle scarpe sportive, qualunque altro tipo di calzatura è superflua anche in altura.
I gsm occidentali non funzionano: se volete telefonare o ricevere l’unica possibilità è acquistare una SIM locale prepagata, ci sono di vari tagli, noi con una da venti dollari abbiamo fatto le due settimane e c’è avanzato del credito.
Va da sé che internet mobile è inesistente: tutti gli hotel dalle quattro stelle in sù offrono il wifi gratis almeno nella lobby, il Kandawgyi Palace a Yangon addirittura una connessione per ogni stanza (con il bel router pronto anche per essere resettato manualmente quando fa le bizze), mentre lo Shwe Pyi a Mandalay una per piano.

Acqua sempre e solo in bottiglia sigillata: l’ho già detto ma ripetere, aiuta.

Nel periodo secco, ottobre – marzo, non è necessaria alcuna vaccinazione: portare un disinfettante intestinale e un antibatterico intestinale, utile è anche un disinfettante in gel per le mani.

Un viaggio in Birmania è per quei viaggiatori disponibili a mettere in discussione tutte le certezze della propria vita di occidentali privilegiati, cinici e un po’ egoisti, abituati ad avere tutto senza, apparente, sforzo; è avere l’opportunità di guardare al mondo da un punto di vista diametralmente opposto e ridefinire l’ambito delle priorità.
E’ un viaggio che restituisce la misura delle cose e ridisegna la mappa delle proprie emozioni.

E’ soprattutto gli occhi di questo bimbo qui.

Great Kids of Burma, Lake Inle. Birmania
Great Kids of Burma, Lake Inle. Birmania

Omaggio a Aung San Suu Kyi.

“Please: stand by”.

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