Volare oh oh: Italia, Arizona via Londra Heathrow terminal 5

Sveglia ore 545: 26° C a Roma di già, o ancora visto che da oltre venti giorni ormai non si scende sotto questi livelli di notte, perché poi di giorno soffocare è un piacere.
Doccia veloce, chiudere gli occhi sotto l’acqua è quasi riaddomentarsi. Si chiude la valigia e poi ci si veste, si suda; il taxi, stranamente, ha l’aria condizionata accesa e l’aeroporto non è da meno: finalmente una temperatura sopportabile. Primo decollo. Il sole alla nostra sinistra, il mare sotto di noi, poi un’ampia virata a destra e via verso nord.
Atterrare a Londra accolti da una giornata di sole è una rarità preziosa: Buckingham Palace, Royal Albert Hall, Millennium Dome, London Eye, uno dopo l’altro sfilano alla destra dell’A321 della British Airways che, per traffico intenso (unusual, eh?) gira in tondo un paio di volte sopra la capitale britannica, in uno spot gratuito di certo effetto.
Il terminal 5 di Heathrow è un mostro di tecnologia, vetro e acciaio, scale mobili e tapis roulant: negozi di (alta) moda e di costosi gadget elettronici, perché l’attesa ormai è solamente spazio per gli shopaholics, mentre cibi per tutti i palati sono la costante tentazione per i dannati delle attese da connessioni internazionali.
Trascorrono lente le tre ore che ci separano dall’altro volo, alla chiamata per l’imbarco facciamo scorrere un po’ di involontari compagni di viaggio poi, approfittiamo del privilegio, infiliamo la “fast track” e ci accomodiamo in business class: quei divanetti uno di fronte all’altro in una replica volante delle loveseats. Sfacciata comodità! Dieci ore, più o meno, per essere a Phoenix, Arizona (Usa) dove ci attende uno “excessive heat warning”: non sanno che il forno agostano romano ci ha preparati (e consumati) per bene in queste ultime tre settimane. Vedremo. L’approccio a Phoenix sembra quello per le Victoria Falls nello Zimbabwe: deserto e roccia e una striscia di verde intorno a un corso d’acqua. Le procedure d’immigrazione negli Usa sono lunghe e noiose e dopo dieci ore di volo sono insopportabili: ma la signora che ci prende le impronte vuole imparare come si dice “thumbs” in italiano, “poalliciue” dice dopo averci sentito e ridendo afferma di saperlo dire ormai in cinque lingue oltre la sua. Che bel lavoro, signora mia. Uscire dall’aeroporto e non soffocare è un’impresa: quarantaquattro gradi in fila per sei e con il resto di due ci seccano mucose, lingua e occhi in tre secondi. Il Cairo era più fresco e solamente la valle delle re mi è parsa insopporabile altrettanto. L’albergo è terapia criogenetica compresa nel prezzo: se non ci prende il cagotto qui, non ci prende più.

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